MAN ON WIRE: L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA LIBERTA’

Pubblicato da Collecchio Video Film Festival | Etichette: , , | Posted On domenica 16 novembre 2008 at 08:42



dal nostro inviato a Roma

Anche quest’anno alla Festa del Cinema di Roma (o come diavolo l’hanno ribattezzata) alcune delle cose più interessanti sono venute da Extra/L’Altro cinema, sezione curiosa e libera per mandato, in cui Mario Sesti ha saputo raccogliere i frammenti più disparati di cinema: dall’animazione israeliana 9.99 $ -forse il primo caso di plastilina esistenzialista- alla commedia brasiliana Estomago -spiazzante noir gastronomico-carcerario- fino all’indimenticabile duetto d’attori della strana coppia Verdone-Servillo.
E in una sezione così programmaticamente libera non poteva che spiccare, quasi come un manifesto, il vero e proprio “inno alla libertà” consegnatoci da James Marsh, con il suo documentario Man on Wire. Prodotto da BBC e distribuito negli Sati Uniti da Magnolia, già vincitore di una camionata di premi internazionali, non sembra al momento destinato ad arrivare nelle sale italiane. Beh, se così fosse, recuperatelo in qualsiasi modo -lecito e non: ne vale la pena.

Il film racconta la storia di un’impresa epocale, appesa –e la parola non è casuale– tra lo sberleffo prepolitico e l’atto rivoluzionario. Nel 1974 il funambolo Philippe Petit, dopo un paio di altri “colpi” che l’avevano elevato agli onori della cronaca, mette in pratica il suo piano più impensabile e scapestrato: stendere un filo tra le neonate Torri Gemelle per danzarci sopra a 400 metri dal suolo.
Detta così, eccezionalità del soggetto a parte, la materia cinematografica è ancora tutta da plasmare. Marsh ci riesce conducendo abilmente e in contemporanea tre livelli di racconto: la testimonianza in prima persona di Petit e dei suoi complici; le immagini fotografiche e filmate d’epoca; la ricostruzione dei fatti in forma di docufiction, in cui mescola meccanismi narrativi da heist movie a un’estetica stralunata tutta ombre e controluce da film muto. Il risultato è un crescendo che porta prima a condividere l’eccitazione irresponsabile dei protagonisti durante la preparazione del colpo e poi a guardare con la stessa meraviglia dei passanti, occhi in su e bocche spalancate, la sagoma di Philippe sospesa tra le nuvole, nel suo incredibile anelito di libertà.
Ma la cosa migliore del film non è ancora questa; non è la costatazione del semplice miracolo dell'essere liberi. C’è una linea più sottile e insinuante sotto traccia che rende Man on Wire qualcosa di unico e commovente, perfino malinconico: è quel senso di solitudine che si accompagna sempre, come una nota di fondo amara, al gusto della libertà.
La cosa più bella, infatti, non è tanto l’impresa di Philippe, né il suo personaggio pirotecnico, ma lo sguardo dei complici, degli amici del passato che Marsh chiama a testimoniare. Perché per tre quarti, il film è il racconto corale di un’avventura che si va costruendo come una specie d’opera d’arte collettiva: Philippe è solo il leader, il primo tra pari, di una banda di idealisti uniti da un sogno comune, in cui tensione all’obiettivo, sforzo, passione, sofferenza e rischio sono in tutto e per tutto condivisi. Questo, ripeto, per tre quarti del film, ovvero fino a quando Philippe sale sulla corda tesa: lì insieme al senso di meraviglia, si ha come un’impressione di rottura, di lacerazione. Solo è Philippe sul filo e soli sono i complici che fino a quel momento l’hanno accompagnato per mano: separati, per sempre, dall’irriducibile individualità del gesto.
James Marsh ce lo fa capire con uno straordinario pudore: guarda ancora con benevolenza all’egoismo di Philippe che, subito dopo il trionfo, invece di festeggiare con i compagni, sparisce per ore in una camera d’albergo con la prima groupie che gli capita sotto mano; così come non indugia troppo sulle lacrime del miglior amico e compare di Philippe che nelle parole lascia intendere come dal giorno dell'impresa il loro sodalizio sia evaporato in una dolorosa indifferenza.
Insomma, c’è tanta ciccia in questa storia: guardatela; anche solo per capire se siete tra quelli che si emozionano per la Libertà o tra quelli, come me, che guardano commossi alla sua “insostenibile leggerezza” (e che qualcuno protegga Kundera dall’ottusità delle mode a dalle calunnie del tempo).

giacomopoi

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